Ansia e concretezza per la felicità dell’immagine

Un mondo sostanzialmente misterioso, fatto di immediate pulsioni e di indugi speculativo-memoriali, quello di Tonina Garofalo; dove l'”istinto si coniuga armoniosamente con il filtro culturale, ma rimane incorrotto il respiro dell’indefinibile, quello che mi piace chiamare l'”oltrefrontiera”. Da qui una pittura per molti versi inedita, fine e interattiva, coinvolgente nelle sue coordina e sotterranee e nelle sue soluzioni formali. Sono convinto che l’artista debba tutto alla propria “v energia inventiva e alla non comune intensità degli avvertimenti. La sfera dell’immaginario e quella poetico-emozionale hanno, beninteso, come referente necessario, senza di cui sarebbe ozioso qualsiasi discorso sui contenuti, la pertinenza e correttezza dei mezzi espressivi. Doti che sono state, appunto, tanto più indispensabili quanto più “le fughe” della Garofalo, dalla orditura anomala, ma non mai dissociate, comunque, da un regesto visivo di matrice realistica, meglio si presterebbero, a prima vista, ad eludere il rigore del supporto linguistico.

Direi che in una privilegiata condizione genetica e in un processo di assidue conquiste che non hanno visto mai buttare alle ortiche le intimazioni originarie, la pittrice è cresciuta su di sé, con organica consapevolezza e lo stesso ardore gnoseologico degli anni di maturazione: sicché anche l’essere stata allieva di un maestro dello spessore di Gentilini non ha certo mortificato o distorto la vitalità radicale di un linguaggio che ha assunto termini analitici della sintassi e quelli paralleli dell’acculturamento estetico solo per espandersi coralmente e creativamente.

E c’è da riconoscere, in primo luogo, in relazione alle accennate premesse, la coerenza davvero invidiabile della linea evolutiva: tra una Figura smagliante ed estuosa, ai limiti dell’anamorfismo, del ’73 (acrilico su tela) e la tecnica mista Sensazioni, del ’91, non c’è, a ben riflettere, alcuna dicotomia: sulla scorta dello stesso sentire spiazzante e complesso e della stessa esigenza di libertà costruttiva, variano solo le vicende “esterne” del ritmo e della gamma, che dalle accensioni del timbro passa via via a castigate modulazioni. E sempre più elitaria ed originale diventa la intelaiatura dell’opera, fermo restando il fascino ambiguo di una coscienza che ha rifiutato da sempre le facili omologazioni. Notevole ad esempio, nel citato dipinto del ’91, il gusto della impaginazione, il complemento della inferriata sulla sinistra, la scansione geometrizzante, i minuti arabeschi e la trionfale vaporosità, dall’ocra pallido al cilestrino, al viola carminato attorno al volto muliebre.

Non può sfuggire che Tonina Garofalo cerca nel suo lavoro, se non proprio la cosiddetta Wesensform (o “forma essenziale”) cara a Franz Marc anche prima di mediare tra Kandinski e Delaunay, liberando il soggetto dall’impaccio naturalistico, una sua specificità d’impianto. Pur in un mobilissimo contrappunto di aspetti e di tavolozza, che nulla toglie all’unità d’insieme: gli acrilici, le tecniche miste su carta (in genere da incisione), le linoleografie che ripropongono certi esiti eleganti dell’Art nouveau ed altre tipologie operative non sono prova asettica — o meramente sperimentale – di eclettismo, ma prospettano piuttosto una polivalenza sincretica del tutto positiva quanto a spontaneità d’impulsi e vocazione ad una ricerca niente affatto viziata da teoremi e paradigmi.

Così, la chiarezza di un itinerario progettuale non contraddice alla felicità della prassi rapida, tutta entusiasmo e calore; e la bellezza si è decisamente affermata contro la belluria provinciale, la sostanza primaria della cultura contro l’ingannevole scintillio del cultismo.

Le indicazioni di una “dinamica misura” — mi si passi il bisticcio, che è voluto – potrebbero essere tante: ecco il grande occhio finechiomato su un passaggio urbano in dissolvenza che richiama i Piani verticali azzurri e rossi di Kupka (anche qui, come in altri dettagli dell’opera di Garofalo, un ponte tra il Fauvismo e il Cubismo); e un Adamo ed Eva del ’90, dove gli accenni figurali dei due scomparti s’immergono in un indistinto metafisico. Non viene mai meno l’autonomia di ideazione e di stile. E non ci si lasci trarre in errore da certe contiguità di superficie: si noti in una Composizione del ’79 un gioco di modulazioni puntinate, che sostituisce però al “pointillisme” di Seurat e di Signac, d’impronta prevalentemente razionale, una libera vibrazione del colore.

Una decina di anni fa Filiberto Menna sottolineava per Tonina Garofalo “una marcata capacità di trasfigurazione fantastica”. Credo si tratti, in definitiva, di una reciprocità simbolica: il vissuto, assunto tra urti spietati ed estasi contemplative, tra lacerazioni ed aperture verso i cieli alti del sogno, si veste di stupori e di sovrasensi, perdendo la propria ovvietà rutinaria; mentre l’attesa, l’esplorazione ansiosa dentro ed oltre le spoglie, il sospetto di una latitudine altra s’intramano, prestando alla “immagine” i connotati della “visione”, di tutti i suggerimenti del reale.

Volto, foglia, uccello, rametto, come nella lito intitolata Autunno, diventano allora i segni di una persistenza ostinata; senza questo arrestare lo slancio di superamento, la bruciante inquietudine dell’artista che vorrebbe svincolarsi dalla prigione della contingenza.

E senza dubbio indice di complessa e sofferta spiritualità il contrasto fra idea, hegelianamente intesa, e concretezza pragmatica. Un dissidio millenario che ha fatto, di là della usura materialistica, la grande arte e la grande poesia. Ma è dalla tentata conciliazione che viene fuori appunto la qualità del linguaggio; mentre, per quel che concerne i traguardi del mestiere, basta considerare (come ha ben visto Luigi Tallarico in alternanza alle logoranti proiezioni dell’idea), la limpida stesura del segno, la “rigorosità che corregge l’emozione”.

Fatto è che ci troviamo di fronte ad una personalità per nulla assimilabile all’anonimìa dei modelli correnti. Che non si appaga dell’effimero ma cerca dialetticamente, senza rinunciare al controllo scrupoloso dei mezzi espressivi, una risposta al perché del proprio consistere.

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