L’eterno incanto

Alla fine degli anni Sessanta Roma è teatro di una intensa vita culturale, legata a quel generale clima di rinnovamento che investe l’Europa. Come già nei decenni precedenti è meta di tanti giovani che dalla Calabria, regione priva di università e accademie, vi si trasferiscono per studiare o per diventare arti­sti: come, ad esempio, Andrea Alfano, Enzo Benedetto, Michele Guerrisi, Giuseppe Monteleone, Aldo Turchiaro, Nunzio Solendo.

Anche Tonina Garofalo si trasferisce dalla Calabria nella Capitale per intraprendere gli studi all’Accademia di Belle Arti di Via di Ripetta. Lascia un Sud provinciale portandosi dietro, con tante belle speranze, la sua passione per l’arte e le sue inge­nuità di ragazza di buona famiglia meridionale. Comincia il suo percorso di studi sotto la guida di Franco Gentilini, esponente della Scuola Romana, che la avvia alla pittura influenzandone la formazione in direzione del realismo fantastico. A dirigere l’Accademia romana in quegli anni è Luigi Montanarini, pitto­re di vocazione informale, che esercita sulla Garofalo una sug­gestione nel gusto compositivo e coloristico di una immagine disgregata. Fra questi due poli si muoverà tutto il lavoro di Tonina Garofalo, attratto, per un verso, dai richiami di una figurazione più tradizionale e, dall’altro, incuriosito da una gestualità liberatoria.

Ancora studentessa d’accademia espone nel 1968 al Palaz­zo delle Esposizioni di Roma nell’8a Mostra Universitaria Internazionale d’arti figurative, con in giuria Mirella Bentivoglio.

Garofalo frequenta anche un giovane artista, Luigi Di Sarro, calabrese come lei, medico e pittore sperimentale, che morirà tragicamente nel 1975 e che lascerà in lei il ricordo di una bella amicizia, ma nessuna fascinazione per l’arte d’avan­guardia, la ricerca sfrenata e i concettualismi. Per lei sono più importanti le sensazioni, le evocazioni, l’espressività, la sponta­neità di una pittura praticata a “fior di pelle”, semplice come il suo modo di essere nella vita, più incline allo strettissimo pri­vato che alla dispersiva dimensione pubblica.

Eppure Tonina Garofalo alla vita di società avrebbe potu­to accedere con grande facilità, per via dei legami familiari con il mondo della buona società romana attraverso il cognato Riccardo Misasi, parlamentare democristiano e ministro della pubblica istruzione, personaggio di spicco della politica italia­na negli anni Settanta e Ottanta. La sua frequentazione con quell’ambiente si limita a qualche vernissage di mostre in cui la si vede assieme ad esponenti del governo e dei partiti come l’al­lora segretario della DC Ciriaco De Mita. Alla mondanità pre­ferisce artisti e critici d’arte, con i quali si rapporta sempre con discrezione e qualche timidezza. Cerca consigli e consensi per il suo lavoro che conduce con precisione e riserbo, sollevando a se stessa piuttosto questioni interiori e di ricerca spirituale.

Incontra Cesare Vivaldi che l’affianca in qualche occasio­ne, nelle sue discontinue esibizioni in pubblico. Vivaldi, prima docente di storia dell’arte e poi direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma, nel presentarne la mostra personale alla Galleria di Ettore Russo a Piazza di Spagna, nel 1974, così caratterizza il suo lavoro: «Il quadro diventa il centro in cui eventi spaziali si coagulano e dal quale si irradiano in forma, per l’appunto, di energia cromatico-luminosa. Sulla tela la Garofalo crea dei vortici, dei guizzi di colore-luce che non hanno solo una funzione espressiva ma mirano a estendersi tentacolarmente nello spazio».

Nel frattempo Tonina Garofalo lascia Roma per ritornare a Cosenza, dove intraprende a insegnare nel Liceo Artistico di nuova istituzione. Qui fa cerchia con i giovani artisti che si rac­colgono variamente attorno al direttore Franco Lupinacci, arti­sta citazionista impegnato già da allora in una riscoperta post­moderna dell’arte del passato.

Nella seconda metà degli anni Settanta è presente in alcu­ne mostre a Cosenza, espressione dei primi timidi gruppi arti­stici alla ricerca di una identità e di una strategia organizzativa. Nel 1974 espone al Centro d’Arte La Bussola di Giancarlo Sirangelo e nel 1975 è invitata a “Arte e Mezzogiorno” nell’am­bito della Festa dell’Unità a Cosenza; nel 1979 partecipa alla 3a Rassegna Internazionale della Grafica “Città di Lecce”, orga­nizzata da Luciano Marziano, Mario Penelope. Giuseppe Selvaggi e Fernando Miglietta, che, nello stesso anno, ne presenta anche la mostra personale alla Galleria II Triangolo di Enzo Le Pera a Cosenza.

Intanto con gli anni Ottanta si avvia in Calabria una stagio­ne di rinnovamento, che vede stabilizzarsi un salutare via vai di tanti artisti calabresi “stanziali” con il resto d’Italia, per rom­pere l’emarginazione e per avvicinarsi ai centri metropolitani e, soprattutto, agli ambienti artistici della Capitale. Mentre a Roma approdano gli artisti “post-meridionali” tenuti a battesi­mo dai critici d’arte Filiberto Menna, Enrico Crispolti e da me, Tonina Garofalo, alternando sortite pubbliche a periodi di iso­lamento, nel 1984 entra in contatto proprio con Menna, che ne apprezza soprattutto la produzione grafica e «la marcata capa­cità di trasfigurazione fantastica» attraverso quei suoi «contor­ni che si espandono in efflorescenze erboree ed intricati cespu­gli».

L’esercizio creativo diventa per lei sempre di più un’espe­rienza personalissima, autoreferenziale che privilegia le sensa­zioni più riposte. Lo spazio della pittura è uno spazio dell’ani­ma, dove le immagini sono evocazioni psichiche in perenne turbinio, dove affiorano ricordi e desideri, sogni e vagheggia­menti. Questa ricerca di interiorità e di ritiro nella propria pri­vacy fa tutt’uno con il suo trasferimento da Cosenza a Fiumefreddo Bruzio, sulla costa tirrenica, luogo naturalmente incline alla meditazione già scelto dall’abate Gioacchino da Fiore nel 1200 per edificarvi l’abbazia di Fonte Laurato.

Continua così un percorso esistenziale introspettivo che saltuariamente si concede delle esternazioni; alla fine degli anni Ottanta e per tutti i Novanta la segue per un significativo trat­to di strada il critico e poeta Giuseppe Selvaggi, che la fa esporre nel 1989 nel suo spazio romano “Idea”, scrivendole la presentazione assieme a Luigi Tallarico, altro calabrese come loro. Pertinentemente Selvaggi parla del suo “silenzio d’arti­sta” a spiegare una “rinuncia” al presenzialismo che è una scel­ta di vita, magari controtendenza, ma certamente autentica, improntata ad una serena semplicità.

A sottolineare il suo candore umano è lo stesso Riccardo Misasi, uomo colto e dedito anche alla poesia, che nel 1993 in occasione del cinquantesimo compleanno della Garofalo, scri­ve:

Cinquant’anni sono un’età adulta

Non per Tonina, però la cui freschezza

Rimane intatta e nel suo cuore esulta

E sempre esulterà la fanciullezza.

Quel fare semplice e forse un po’ svampito

Quella sensibilità un po’ creativa è tutto. E nulla

Può il tempo. Fino all’infinito

Tonina è e resterà fanciulla…

Ad una condizione eternamente innocente si rifà tutto l’at­teggiamento intellettuale di questa artista senza pose e senza imbarazzi per la propria ingenuità. La produzione di questo periodo è documentata nella partecipazione al XXII Premio Sulmona nel 1995, e alla rassegna “Immaginaria” al Palazzo Comunale di Fiumefreddo Bruzio nell’estate del 2000.

In questi ultimi vent’anni la sua tensione si è rivolta alla conquista di una dimensione immateriale, che si è identificata anche con l’esperienza religiosa, condotta con gioia ed esalta­zione. Così anche la sua pittura è diventata progressivamente trasfigurante, in un graduale processo di astrazione dalla realtà. A questa fase spiritualistica si collegano le opere di arte sacra per alcune chiese calabresi, specialmente il pannello del Fonte Battesimale nella Chiesa di Sant’Amelio a Cosenza (2004), che rinunciando alla descrizione didascalica, meglio rende l’afflato mistico.

Le forme pure di quest’ultimo periodo sembrano interpre­tare meglio l’ansia di essenzialità; la sintesi a cui perviene l’ar­tista privilegia il valore della superficie che è resa vibrante da segni sincopati e rapide pennellate.

La figura si annulla e si ricompone in geometrie primarie ad evocare una superiore entità. L’immagine si minimalizza e la rappresentazione tace, lasciando il posto ad un brusio visivo che attua la catarsi del sembiante.

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